Due fantasmi bianchi a Paulis: una storia di Sardegna

Coros, Logudoro, decenni centrali del Trecento: tra Ittiri e Uri sorge da oltre un secolo il monastero di Nostra Signora di Paulis.

Questa è una terra aspra, scarsamente abitata: l’assassinio dell’abate fu un fatto improvviso, imprevisto e violento. Nei crocicchi dei villaggi e davanti ai focolari delle case sparse cominciano presto a raccontarsi storie di uno spettro bianco incapace di trovare pace tra le antiche mura romaniche.  

I monaci bianchi – di tale tonalità era infatti il saio dei cistercensi – vivevano in completo isolamento: si dedicavano alla preghiera e alla coltivazione della terra; ma anche, sussurrava qualcuno, allo studio delle arti magiche e dell’alchimia, pratiche che avrebbero consentito loro di accumulare enormi fortune.

Nel Quattrocento l’abbazia fu abbandonata dai monaci, diventando presto oggetto delle mire dei cercatori di tesori (siddhados), convinti che davvero quelle antiche mura nascondessero ricchezze favolose. Di questi predoni non ci sono arrivate notizie.

«Nessuno di essi – bisbigliavano gli anziani – è mai tornato indietro, perché le anime dei monaci defunti – soprannaturali sentinelle a protezione degli inviolabili segreti dell’abbazia – ghermiscono chiunque provi a penetrarvi.»

Un salto nel tempo

Facciamo un salto del tempo fino alla metà del secolo scorso: a Paulis giunge il frate Pietro Cau (o Cao), dotto personaggio, esperto di cose antiche. La sua volontà è ferrea, il suo sogno lo tormenta come un pungolo: restituire l’abbazia all’antico splendore. Non ce la farà: sarà a sua volta ucciso il 7 settembre del 1959. Per il monastero, sconsacrato e abbandonato, è l’ultimo atto.

La veste di frate Cau era candida come quella dell’antico predecessore, destinato alla medesima sorte. Da quel giorno di sessanta anni fa qualcuno ha cominciato a parlare di un secondo bianco fantasma, senza pace tra le rovine dell’abbazia.

(Foto: Maria Saba.)


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