Dalla parte di Chef Kumalè, ovvero: tutta la cucina è contaminazione
Non è solo perché da tempo lo seguiamo e ne apprezziamo il prezioso lavoro di ricerca e divulgazione in tema di culture (il plurale è pregnante: non casuale) gastronomiche.
Non è solo perché prendendo le sue difese di fatto difendiamo, anzi rivendichiamo, la nostra stessa filosofia gastronomica, che mira a mescolare su una base sarda influenze che vanno dall’Estremo Oriente al Perù.
Non è solo per queste due ragioni che, nella recente e spiacevole vicenda che ha visto l’addio a “La Prova del Cuoco” (condotto da Elisa Isoardi) da parte di Chef Kumalè, al secolo Vittorio Castellani, tutta la nostra simpatia va a quest’ultimo.
Ma principalmente per una terza, che è la seguente: non esiste, da nessun punto di vista e in nessun luogo, alcuna presunta “purezza gastronomica” da preservare, per il semplice fatto che tutte le civiltà culinarie note sono frutto di contaminazione. Tutte. Nessuna esclusa.
Prendiamo dunque sul serio l’invito del “Gastronomade”:
Se davvero vi stanno a cuore certe tematiche, aprite le vostre testate a questi contenuti, favorendo la conoscenza e contrastando pregiudizi e paure.
Anche noi scriviamo queste righe per ribadirlo.
La genuinità primigenia in cucina non esiste. Non esiste in Italia, terra da sempre crocevia di popoli e culture. Tanto meno esiste nelle sue singole tradizioni regionali.
Qualche esempio
L’amatriciana, vanto laziale, altro non è che un’evoluzione, peraltro recente (ha poco più di duecento anni), della gricia. Gricia (o griscia) che è, a sua volta, probabilmente un contributo dei pastori dell’Appennino, le cui bisacce recavano – nelle migrazioni stagionali – pecorino, strutto e guanciale. Non vi basta? Considerate allora che “grici”, a Roma, erano anche gli immigrati originari della Valtellina e del Canton Grigioni.
Reggetevi forte. Secondo lo storico e archeologo della cucina Emilio Dente Ferracci, l’invenzione della carbonara sarebbe merito dei soldati americani e della loro razione K: tuorlo d’uovo in polvere e pancetta (bacon). Materie prime che poi, in Italia, qualcuno – un soldato, o più probabilmente un italiano cliente della borsa nera – pensò bene di utilizzare per condire gli spaghetti.
Il piatto sardo per eccellenza, la freula, ha evidentissimi punti di contatto con il cuscus, il cui inserimento nei menù scolastici ha recentemente fatto gridare allo scandalo qualche esponente politico di casa nostra, desideroso di recuperare popolarità e consenso.
Gli spaghetti al pomodoro e la pizza napoletana, simboli (e stereotipi) dell’Italia nel mondo, devono il loro inconfondibile sapore a un frutto (non è una verdura) del Nuovo Mondo.
In nessun caso si può parlare di canone, di ortodossia: tutta la cucina è apocrifa.
Si capisce bene, alla luce di tutto questo, come ogni costruzione ideologica purista che cerchi di vendere come “schiettezza” il primo piatto dell’osteria e come “corruzione” ogni incontro culture enogastronomiche diverse sia, quando va bene, una clamorosa ingenuità.
In tutti gli altri casi è truffa ideologica bella e buona, talvolta ispirata dai fini più loschi. E non vi è deodorante retorico in grado di coprirne i pestiferi effluvi. Di certo non quello, dall’amaro sentore, che pretende nel piatto una presunta italianità in funzione identitaria. Ma neanche quello, falso a dispetto dell’innocenza che predica, che vorrebbe un ritorno (ma quando mai l’abbiamo abbandonato?) al pane e salame, non in quanto squisitezza per il palato (saremmo d’accordo), ma in quanto baluardo strapaesano contro non si sa bene che cosa di meticcio, di straniero, di spaventoso.