Halloween? No, grazie: siamo sardi!

Avanza l’autunno, sulla Sardegna ancestrale. Le giornate si accorciano, un vento via via più freddo soffia sulle coste e sull’entroterra arcaico, nuragico, fenicio. Si avvicina il momento nel quale il mondo dei vivi e quello dei morti entrano – così si crede – in contatto. Nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre i morti sono liberi di vagare sulla terra.

Altro che Halloween, dunque: leggende e riti sono, sull’isola, molto più antichi non solo del recente revival anche sul suolo europeo, ma delle sue origini, verosimilmente medievali e di verosimile ascendenza relativa al capodanno celtico, detto “Samhain“.

Torniamo alla Sardegna: non solo molte altre le regioni (italiane, europee) altrettanto capaci di incarnare la vera essenza della festa dei defunti che, nel tempo, ha assunto per molti versi un connotato goliardico. Sgomberiamo il campo, dunque, dai pallidi riflessi contemporanei di tradizioni di origine anglosassone: è da tempo immemorabile che, durante la notte dei morti, i bambini sardi camminano per le strade, bussano alle porte chiedendo “is animas”, “le anime”, e le famiglie, per l’occasione, preparano accuratamente dei dolci tipici di saba (“pabassinas”), cioè ciroppo concentrato d’uva che si ottiene dal mosto di uva bianca e rossa, o pane nero. Nel sacco le donne ripongono, da tempo altrettanto immemore, pane, noci, frutta, dolci. Una ritualità mai fine a se stessa: si riteneva infatti che, mangiando questi alimenti, gli stessi cibi giungessero ai defunti, in grado di tornare a mangiare grazie ai vivi.

Il simulacro più antico della festività dei morti, praticato sia in Sardegna sia in Corsica, ci riporta al periodo nuragico. Le festività di questo periodo dell’anno sono dette, nel nord dell’isola, “Su bene ‘e is animas” (letteralmente “il bene delle anime”), mentre nella parte meridionale sono chiamate “Su mortu mortu“, espressione di difficile traduzione. La notte del ricordo dei defunti è animata da usanze misteriose, retaggio di un passato millenario, che presenta, talvolta, insospettabili convergenze con le culture druidiche.

Quasi fate nordiche, sulle terre della Sardegna fantastica passeggiano le “janas“, piccoli spiriti in equilibrio tra cielo e terra: chi giura di averle viste le descrive come esseri femminili che dimorano negli antichi sepolcri pre-nuragici.

Nel Marghine, Goceano e Barbagie si parla di “‘is animeddas”, “su mortu mortu”, “is panixeddas” e “sas animas”: la notte in cui si ricordano i defunti è animata, sull’isola, da riti e usanze misteriose.

A Galtellì si implora “carchi cosa a sas animas”, “qualcosa per le anime”. Nella provincia di Sassari si usa esclamare “a fagher bene a sos mortos”, un’espressione che significa “far bene ai morti”. Alle porte dell’Ogliastra i bambini indossano una veste bianca con un sacco in spalla e intonano la litania “seus seus begnus po is animeddas” (“siamo venuti per le piccole anime”).

Di zona in zona cambiano i nomi, il folklore, le usanze: rimane la stessa invece la sostanza, bambini che indossano maschere e passano di porta in porta chiedendo offerte per le anime, non in denaro ma sotto forma di doni (melagrana, castagne, frutta secca e dolci tipici di questo periodo). Ancora oggi è usanza diffusa lasciare apparecchiata la tavola per i defunti tutta la notte, tenendo anche le credenze aperte affinché essi possano nutrirsi.

Di fronte a questa tradizione millenaria, l’espressione “festeggiamo Halloween” (festa divertente, sia chiaro: piace anche a noi) è davvero inadeguata.


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